Pensare a rovescio se si vuole affermare il cambiamento organizzativo

di Domenico Carrieri - Università degli Studi di Roma “La Sapienza”
È possibile rendere più ‘manageriale’ il settore pubblico italiano? Renderlo cioè più capace di raggiungere risultati maggiori (di quelli sin qui realizzati), e con maggiore produttività attraverso la cura della organizzazione del lavoro, facendo lavorare meglio e “insieme” (con equivalenti del team working) i dipendenti, oltre che con una maggiore attenzione rivolta agli aspetti motivazionali e di benessere organizzativo che li coinvolgono? [...]

di Domenico Carrieri, – Università degli Studi di Roma “La Sapienza”

 

È È possibile rendere più ‘manageriale’ il settore pubblico italiano? Renderlo cioè più capace di raggiungere risultati maggiori (di quelli sin qui realizzati), e con maggiore produttività attraverso la cura della organizzazione del lavoro, facendo lavorare meglio e “insieme” (con equivalenti del team working) i dipendenti, oltre che con una maggiore attenzione rivolta agli aspetti motivazionali e di benessere organizzativo che li coinvolgono?

Questo interrogativo ritornante non può non fare i conti con i risultati modesti e comunque percepiti come inadeguati (nonostante alcuni meriti) del ciclo di riforme avviato ormai circa venticinque anni fa: ma che nella logica dei nostri decisori politici sembra continuamente bisognoso di ulteriori riforme. In un continuo gioco di Sisifo, tanto estenuante quanto scoraggiante, dato che esso implica nella sostanza il mancato raggiungimento degli obiettivi originari.

Questa delusione – e spesso estenuazione – in relazione a esiti che sono socialmente considerati come insufficienti può in primo luogo essere rovesciata se si prova a rovesciare il gioco dell’ultimo quindicennio.

Un gioco costruito sull’idea – fin qui rivelatasi come vincente nel senso comune – delle pubbliche amministrazioni come problema e costo per il paese. E dunque come tali da ridimensionare e tagliare, a prescindere dalla domanda, quasi sempre crescente, dei cittadini e dalle best practices acquisite da una parte di esse.

Dunque il primo passaggio è quello di rilanciare una idea del pubblico non come freno ma come volano della modernizzazione del paese. E capace dunque di trainare anche il restante apparato produttivo, come avviene in larga parte dei paesi avanzati.

Un rovesciamento che richiede però un diverso paradigma di riferimento capace di mettere in discussione le ideologie da ‘stato minimo’ prevalenti nella discussione italiana, e quasi sempre sovrastanti nell’impostazione delle politiche europee. E dunque rinvia anche ad attori politici in grado di animare concretamente un paradigma alternativo rispetto a quelli fin qui prevalenti. Mentre non sorprende che i fautori dello stato ‘minimissimo‘, cioè da ridurre ulteriormente – collocati soprattutto a destra – facciano bene il loro mestiere di contribuire ai tagli lineari al settore pubblico e alla stessa idea di pubblico.  Sorprende maggiormente la mancanza – almeno in larga misura – di imprenditori e di politici attrezzati a rilanciare una prospettiva diversa, e per questa via in grado di affermare l’idea dello stato innovatore.

Il fallimento, almeno relativo, delle politiche di riforma precedenti suggerisce alcune innovazioni ed aggiustamenti di tiro. I quali dovrebbero partire da quell’apprendimento organizzativo minimo che rielabora i risultati non positivi o inferiori alle aspettative dei decision makers, ricorrendo a metodi d’azione ed obiettivi idonei a tenere sotto controllo le criticità precedenti.

Dunque è importante partire dalle esperienze realizzate, dai loro successi e dai loro limiti, per mettere a fuoco quali strade intraprendere per affermare un orientamento manageriale che si affermi sostanziandosi nei comportamenti diffusi dei funzionari pubblici, come fatto sociale e non come input amministrativo.

Dunque al primo posto un rinnovamento delle prassi e non – almeno in prima battuta –  dei modelli. Perché da prassi locali e realtà specifiche possono emergere fattori di successo e di insuccesso, i quali possono aiutare in una qualche traduzione a scala più larga.

Ma – non va dimenticato – i modelli teorici adottati nell’ultimo ventennio sono stati largamente disattesi, anche perché spesso astratti e calati dall’alto.

Quindi ben vengano le discussioni che riguardano l’aggiornamento del modello di New Public Management a cui si sono spesso riferiti i riformatori italiani, e non solo loro, negli ultimi decenni.

Ma il punto centrale sembra essere non quello di aggiustare un modello che, nel caso specifico, si è dimostrato poco idoneo a intersecare in modo materiale la realtà organizzativa italiana. Piuttosto consiste nel provare attraverso sperimentazioni parziali ed errori a costruire casi interessanti almeno in parte replicabili, senza ricalcare la strada della aziendalizzazione delle nostre pubbliche amministrazioni.

Insomma all’insuccesso del riformismo dall’alto bisogna contrapporre un riformismo della prossimità, dei piccoli passi, e di obiettivi selettivi basati su una larga autonomia nei metodi e nelle soluzioni, e non preoccupati di rispondere ad un idealtipo astratto o di pervenire subito ad un frame generalizzabile.

Questo non significa che non siano necessarie teorie del cambiamento organizzativo. 

Ci vuole invece una teoria del cambiamento, ma non una teoria rigida ed assoluta che pensi di imporsi a tutte le realtà in modo meccanico ed uniforme. E soprattutto una teoria che non venga costruita ex ante e a tavolino. Piuttosto un metodo di respiro teorico che si affermi a consuntivo di una larga messe di tentativi sul campo, attraverso la selezione di quelli più promettenti.   

Ma un approccio manageriale per fare cosa? Appare evidente, in base agli accenni precedenti, che vi siano almeno due strade percorribili.

Una, che potremmo considerare di manutenzione ordinaria, che consiste nel far funzionare meglio l’esistente, dunque quello che già c’è, a risorse invariate o ridotte. Ivi incluso il personale, che andrebbe così variamente incentivato in modo da produrre il miracolo dell’innalzamento degli standard realizzati (ma con risorse materiali decrescenti e non tali da suscitare grandi coinvolgimenti).

Ma poi esiste anche un altro approccio, al quale abbiamo alluso, e che rientra dentro l’idea di una manutenzione straordinaria. Questo non può che fondarsi su un altro ruolo dello stato, su un progetto di lungo periodo atto ad animare energie innovative all’interno della risorsa lavoro: in parte quelle vecchie (il personale già in dotazione),  ricostruite intorno ad obiettivi di respiro, in parte quelle nuove (nuovo personale e maggiormente qualificato) che possa funzionare da driver del processo di cambiamento organizzativo.

Questo obiettivo è quello che potremmo definire con una formula riassuntiva, proposta da alcuni studiosi, dello ‘stato strategico’. Uno stato promotore dello sviluppo, che aiuta a individuare le aree di maggiore innovazione possibile e a favorire l’innalzamento del volume di investimenti, diretti ed indiretti, atti ad alimentarla. Uno stato imprenditore, per dirla con Mariana Mazzucato, perché seleziona le aree e i settori strategici nei quali l’innovazione tecnico-organizzativa può essere un volano, assicurando conseguenze sociali desiderabili (a partire ad esempio da quelle dell’incremento dell’occupazione, e di una ‘buona occupazione’). E quindi si pone come alimentatore delle migliori risorse manageriali del pubblico, ma anima e fa crescere anche quelle private orientandole nella stessa direzione.

Allo stato minimo non si può contrapporre lo stato ipertrofico. Ma uno stato agile e capace di muoversi in modo duttile intorno ad un set di obiettivi selezionati ben identificati e praticabili. Invece la nostra storia amministrativa è troppo ambiziosa negli assunti generalisti e troppo esile nei risultati acquisiti.

Quindi questo processo evolutivo, cui abbiamo alluso in modo solo schematico, trova il suo fondamento in una logica riformatrice significativamente diversa da quella messa alla prova – con successi intermittenti ed esiti considerati inadeguati – nei decenni della cosiddetta Seconda Repubblica.

Dunque una cultura manageriale – ancora largamente da costruire e affermare – può farsi strada se si comincia a parlare di ‘riforme’ e non di riforma. Ad usare una pluralità di tastiere ed una varietà di ambiti applicativi.

In sostanza sarebbe utile coltivare un percorso diverso da quello adottato nel periodo passato. Le diverse riforme che si sono succedute, con intenti più o meno ambiziosi, nel corso degli scorsi decenni hanno ruotato intorno ad una trama di cambiamenti normativi. Il motore era la norma, anzi tante norme spesso sovrapposte a quelle precedenti.

Adesso si tratta di rinunciare all’idea del grande cambiamento legislativo, che vuole incidere su tutto il sistema grazie alla bacchetta magica dell’innovazione normativa. Al centro bisogna mettere l’innovazione organizzativa, come processo costante che attraversa e fa interagire le diverse pubbliche amministrazioni. Ed almeno in una prima fase questo processo va animato dentro gli enti e le amministrazioni senza una forte ed assorbente sponda normativa, ma attraverso una selezione degli obiettivi prioritari e l’affidamento ai network interni – spesso ridisegnati caso per caso – dei mezzi e degli strumenti per raggiungerli.

Insomma è difficile immaginare una managerialità pubblica se non si declina in modo diverso l’idea delle riforme. Se al primo posto non appaiono le procedure atte ad applicare le norme (e che spesso prescindono dagli obiettivi da realizzare). Ma compaiono azioni organizzative finalizzare a pochi obiettivi chiari e selezionati, e non mescolati all’attesa messianica, ma vaga, di un cambiamento in grande. 

Dunque non abbandonare la progettualità e l’aspirazione al cambiamento. Ma declinarla sul versante organizzativo affidando agli attori direttamente coinvolti il compito di costruirla, di testarla, e di realizzare in modo incrementale le innovazioni effettivamente praticabili.

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