La pubblica amministrazione italiana: il punto di vista di un’economista pubblico

di Giuseppe Pisauro - Università degli Studi di Roma “La Sapienza”
Costruire una rivista multidisciplinare è una sfida difficile. Mettere effettivamente in comunicazione - e non semplicemente giustapporre - le riflessioni di discipline con ambiti di interesse e approcci molto diversi è un'operazione dagli esiti incerti. E' una sfida che, tuttavia, per un economista vale la pena di accettare, specie se è riferita al funzionamento della pubblica amministrazione [...]

di Giuseppe Pisauro, Università degli Studi di Roma “La Sapienza”

C ostruire una rivista multidisciplinare è una sfida difficile. Mettere effettivamente in comunicazione – e non semplicemente giustapporre – le riflessioni di discipline con ambiti di interesse e approcci molto diversi è un’operazione dagli esiti incerti. È una sfida che, tuttavia, per un economista vale la pena di accettare, specie se è riferita al funzionamento della pubblica amministrazione (PA): tra i principali fattori alla radice della sostanziale stagnazione dell’economia italiana nel nuovo secolo vi è una dinamica molto insoddisfacente della produttività nel settore dei servizi nella quale la performance della PA gioca un ruolo cruciale.

Le riforme degli ultimi venti anni

Una riflessione sulla PA italiana deve partire da una rilettura delle esperienze di riforma degli ultimi venti anni. Il punto di vista che qui si assume è quello dell’economia pubblica e della nuova economia istituzionale. La prima cosa che emerge è l’intreccio della riforma della PA con la riforma del bilancio e con la spending review, due temi che ci rimandano alle questioni dei controlli e della valutazione.  Le riforme del bilancio che si sono succedute a partire da metà degli anni ‘90 si basano su un principio fondamentale: la realizzazione della corrispondenza tra responsabilità di spesa e responsabilità di gestione e amministrazione, che implica la riorganizzazione degli uffici pubblici per centri di costo e di responsabilità con lo scopo di attuare efficaci forme di controllo di gestione.  La spending review, espressione mutuata dall’esperienza pluridecennale del Regno Unito ed entrata nel lessico italiano a metà degli anni 2000, si basa, in ultima analisi, sulla valutazione del funzionamento delle strutture dell’amministrazione pubblica.

Superfluo ricordare che valutazione e controlli sono strettamente collegati. Riguardo alla valutazione, nell’esperienza italiana concreta ci si è mossi lungo due prospettive. La prima è quella che possiamo definire di “organizzazione industriale” (nel senso che questa espressione assume nella moderna microeconomia), la seconda quella della “riforma burocratica”.  La prospettiva di “organizzazione industriale” dovrebbe condurre alla riorganizzazione delle reti territoriali di “uffici” sulla base delle economie di scala e di diversificazione e della costruzione di indicatori di inefficienza tecnica.  Ci si aspetterebbe, in un paese in cui la qualità dei singoli settori dell’amministrazione è sempre stata molto eterogenea, con situazioni di eccellenza accanto ad altre molto arretrate (basti pensare alle differenze di performance che si osservano tra gli ospedali, tra le scuole, tra i tribunali), un grande sforzo teso a disegnare sistemi di misurazione per valutare e confrontare le singole unità amministrative e per ridefinire i modelli organizzativi. Numerose analisi empiriche dimostrano quanto siano ampi i guadagni potenziali ottenibili, in termini di costi e/o risultati, anche soltanto riuscendo, in ogni settore, a portare le unità meno efficienti sul livello di efficienza media osservato per l’insieme di quel settore (questo approccio è stato alla base del lavoro della Commissione tecnica per la finanza pubblica, 2007, nei suoi due anni di attività). Nella realtà non sono mancate applicazioni di questo approccio, ad esempio nel caso della riorganizzazione dei tribunali, anche se talvolta solo in apparenza come è avvenuto nel caso delle province.

Nell’insieme, tuttavia, l’investimento “politico” sulla seconda prospettiva, quella della “riforma burocratica” è stato di gran lunga preponderante. Punto di partenza del nuovo modello di lavoro pubblico che si è andato delineando a partire dagli anni ’90 è la contrattualizzazione del rapporto di lavoro. All’accresciuta autonomia contrattuale si è accompagnato un deciso indirizzo dal centro per l’utilizzo di sistemi di performance related pay. Coerente con questa impostazione è il secondo aspetto fondamentale del nuovo modello: l’enfasi sui risultati piuttosto che sugli aspetti di legittimità delle procedure. Da ciò è derivato il ridimensionamento dei controlli esterni, la costruzione di un sistema dei controlli interni, la separazione tra politica e amministrazione con il potenziamento del ruolo dei dirigenti pubblici (ma con il corollario dello spoils system)1

Questo modello è stato applicato in modo meccanico e, soprattutto, tendenzialmente uniforme a tutta l’amministrazione. L’uniformità è l’aspetto più discutibile. L’enfasi sui risultati è fondamentale ma modelli organizzativi, procedure e tecniche di controllo di gestione dovrebbero essere disegnati per adattarsi alla eterogeneità che caratterizza le amministrazioni pubbliche, per lo meno distinguendo tra enti che svolgono attività di produzione di servizi, attività di allocazione e trasferimento di fondi, attività puramente amministrative, attività prevalentemente tecniche. Nella realtà si è tentato di applicare un modello unico, valido per tutti, costruito intorno ad alcuni elementi comuni: destrutturazione dei percorsi di carriera e personale incentivato mediante “retribuzione di risultato”, dirigenti-manager, servizi di controllo interno.

Burocrazia senza carriere?

Burocrazia senza carriere è un ossimoro.  In genere, nel pubblico impiego il rapporto di lavoro è un rapporto di lungo periodo in cui si sviluppano competenze specifiche a quel tipo di lavoro, non spendibili facilmente altrove (ad esempio, diventare un buon funzionario della Ragioneria generale dello stato richiede tempo e training-on-the-job per sviluppare competenze che non sarebbero utilizzabili dal funzionario se si dovesse trasferire in un altro settore, pubblico o privato). In casi del genere, un buon sistema di incentivazione economica dovrebbe basarsi anche sulla progressione di carriera. Eliminati i meccanismi di progressione di carriera, che non deve essere automatica ma deve comunque basarsi su schemi predeterminati, l’esigenza di progressione economica legata alla durata dell’esperienza di lavoro riemerge in sede contrattuale e viene risolta generalizzando, ovvero nel modo peggiore. Questo è avvenuto puntualmente nei primi anni 2000 (Pisauro, 2008): considerando il personale non dirigente, nel periodo 2001-2005, il 38% del personale è stato interessato da forme di mobilità orizzontale e il 25% da mobilità verticale. In altre parole, in quattro anni oltre la metà del personale pubblico è stata coinvolta in processi di riqualificazione che si sono poi tradotti in promozioni. Tutto ciò è avvenuto in un’amministrazione contraddistinta da una qualità del capitale umano spesso non eccelsa. All’inizio degli anni 2000, la quota dei dipendenti maschi in possesso solo della licenza elementare o del diploma di scuola media inferiore era il 37% (per le donne il 20%), un numero molto alto, specie se si pensa che quasi un terzo dei dipendenti pubblici era costituito da insegnanti della scuola che per definizione dovevano essere in possesso almeno di un diploma di scuola media superiore. Le promozioni generalizzate implicano una preoccupante labilità del modello organizzativo, se tale si può definire quello di strutture nelle quali la composizione per qualifiche varia in pochi anni in modo così profondo. 

Riguardo agli incentivi individuali (retribuzione di risultato), un’ampia letteratura documenta come in attività in cui il contributo dei singoli è difficilmente enucleabile e misurabile (ovvero è molto costoso farlo) sia consigliabile indirizzare gli incentivi sul gruppo2. L’esperienza di molte organizzazioni pubbliche e private mostra come sia meglio attribuire incentivi all’ufficio in funzione del raggiungimento di obiettivi di produttività, cioè dell’output per dipendente, creando un “bonus pool” da ripartire in funzione del ruolo, eventualmente prevedendo l’esclusione dei dipendenti poco produttivi. Se c’è un problema di “fannulloni” questo si affronta con strumenti disciplinari non con gli incentivi. Se si forza la situazione, in assenza di un meccanismo di valutazione trasparente e accettato da tutti i componenti del gruppo, si corre il rischio di minare la percezione che i singoli hanno dell’equità dello schema retributivo con effetti negativi proprio sulla performance che si vorrebbe incentivare.

Insomma, in rapporti di lavoro di lungo periodo, quali sono quelli del pubblico impiego, il principale incentivo per gli individui non dovrebbe essere una gratifica annuale ma il percorso di carriera. In un modello organizzativo degno di questo nome, la composizione per qualifiche è stabile nel tempo e non è determinata, come è accaduto nel pubblico impiego italiano, dalla contrattazione con il sindacato. Una composizione per qualifiche stabile implica selettività nei percorsi individuali di carriera. È soprattutto qui che dovrebbe giocare il suo ruolo la valutazione dei singoli.

Dirigenti e specialisti, controlli interni e controlli esterni

Le riforme assegnano un ruolo cruciale ai dirigenti che dovrebbero essere gli agenti principali del cambiamento da un modello amministrativo basato sul rispetto delle procedure verso l’enfasi sui risultati.

Il nuovo modello ha come punto di partenza la ristrutturazione del bilancio cui si è accennato all’inizio (con la corrispondenza tra responsabilità di spesa e responsabilità di gestione) e prosegue con la definizione di obiettivi (indicati dall’autorità politica) verificabili dai servizi di controllo interno sulla base di indicatori quantitativi. I risultati sono finora abbastanza deludenti. La ristrutturazione del bilancio è stata un’operazione puramente formale, non essendosi accompagnata a una riorganizzazione degli uffici pubblici per centri di costo e di responsabilità. La definizione degli obiettivi è risultata in molti casi un esercizio auto-referenziale, gli indicatori quantitativi sono spesso di dubbio significato e non verificabili dall’esterno.

Riforme basate solo sull’enunciazione di principi generali, senza sperimentazione e verifiche costanti dell’applicazione concreta di quei principi, sono destinate a fallire. A proposito della riforma del bilancio dello stato, secondo un punto di vista esterno: “The new missions and programs were simply an ‘overlay’ with little relevance or impact for budgeting (…) Abundance of performance information. But poorly organized and inconsistent” (OECD, 2015). L’intreccio tra responsabilità dei dirigenti e controlli interni si è alla fine tradotto in una mole crescente di nuovi adempimenti cartacei. Una situazione che induce un autorevole studioso della pubblica amministrazione ad affermare che “la responsabilità del dirigente dal terreno sostanziale dei risultati raggiunti scivola sempre più su quello formale dei comportamenti tenuti: dalla vigilanza sui dipendenti all’adozione del piano anti-corruzione agli obblighi di trasparenza o al codice di comportamento del pubblico impiego. Con il risultato di (rischiare di) tornare al più tradizionale terreno da cui tutto era partito, la responsabilità disciplinare” (Cammelli, 2014).

Difficile, comunque, che si affermi una cultura del risultato basandosi solo sui controlli interni, specie in un contesto come quello italiano in cui sono tradizionalmente carenti i controlli di merito ex post e sostanzialmente assente l’attenzione al rapporto costi-benefici (value for money). Difficile, in altre parole, che il modello disegnato dalle “riforme burocratiche” possa funzionare senza il solido supporto di un sistema di controllo esterno dei risultati (un ripensamento della natura della Corte dei Conti che la avvicini al modello di istituzioni come il General accountability office americano).

La valorizzazione del ruolo dei dirigenti su un aspetto ha avuto senza dubbio successo: quello delle retribuzioni. Il processo di ampliamento dei differenziali retributivi iniziato a metà degli anni novanta è continuato almeno per un decennio (successivamente la crisi finanziaria ha semplicemente congelato tutto). Ad esempio, nel periodo 1999-2003, a fronte di una crescita media delle retribuzioni pubbliche del 19%, quelle dei dirigenti sono cresciute del 29% e quelle dei dirigenti generali del 53% (dati di fonte ISTAT).  Questo fenomeno insieme con una chiara tendenza alla de-specializzazione dei dirigenti verso una ideale figura unica di manager (come nelle ipotesi di ruolo unico della dirigenza) ha conseguenze importanti sulla qualità dell’amministrazione, rendendo l’impiego pubblico sostanzialmente non attraente per gli specialisti, in un contesto che già sconta un’evidente debolezza (se non in alcuni casi assenza) delle tecno-strutture (Fiorentino, 2013).  Come ciò sia compatibile con l’evoluzione in atto (o auspicata) della pubblica amministrazione verso il modello dello stato regolatore o, a maggior ragione, dello stato innovatore (Mazzuccato, 2013) è davvero difficile da comprendere.

Modelli teorici alternativi?

Buona parte del movimento internazionale di riforma dell’amministrazione pubblica a partire dall’inizio degli anni ’80 e lo stesso New Public Management trovano un qualche fondamento in un modello teorico della microeconomia: lo schema principale-agente, nato per descrivere relazioni volontarie tra uguali in un contesto di mercato. La sua trasposizione al funzionamento della burocrazia tende a trascurare l’elemento coercitivo presente nell’organizzazione burocratica che è essenzialmente una forma gerarchica.

Dopo quasi trent’anni la burocrazia come forma organizzativa sembra essere sopravvissuta a questo movimento di riforma. In buona parte resta ancora valida la caratterizzazione che ne dava Max Weber basata su elementi come, appunto, il principio gerarchico (con strutture basate su relazioni tra superiori e subordinati), le aree giurisdizionali fisse e ufficiali (ordinate da norme), l’assegnazione del personale agli uffici basata su competenze e formazione, l’impiego a tempo pieno del personale che può nutrire l’aspettativa di una carriera, ecc. Sono caratteristiche che si sono dimostrate molto resistenti, a testimonianza di una loro efficienza di fondo che descrizioni semplicistiche non colgono. I tentativi di riforma, se vogliono avere successo, ne dovrebbero tener conto più seriamente (Meier e Hill, 2005), ad esempio distinguendo da caso a caso e non pretendendo di imporre un unico abito a tutte le realtà. Magari tenendo in maggior considerazione l’approccio dell’economia dei costi di transazione, “The public bureaucracy is a puzzle. How is it that an organizational form that is so widely used is also believed to be inefficient – both in relation to a hypothetical ideal and in comparison with private bureaucracies?  (Williamson, 1999). La risposta che dà quella teoria è che la burocrazia pubblica è una modalità di governance – come lo sono il mercato, gli ibridi pubblico-privato, l’impresa, la regolamentazione – che per alcuni tipi di transazione risulta essere la modalità più efficiente3. L’importante è che ogni modalità di governance sia mantenuta nel proprio ambito. Un argomento che riecheggia la tesi del classico lavoro di von Mises (1944), che forse varrebbe la pena di rileggere con occhi moderni.

1. L’esperienza italiana si inserisce in un movimento di riforma dell’amministrazione pubblica, ispirata ai principi del New Public Management, che ha, con intensità diverse, interessato tutti i paesi sviluppati. Per una illustrazione critica, in chiave comparata (anche rispetto ad approcci alternativi), si rinvia a Pollitt e Bouckaert (2017).

2. Una sistematizzazione generale di questi temi è nella parte V del noto manuale di Milgrom e Roberts (1992).

3. Per una teoria della burocrazia basata sull’approccio dell’economia dei costi di transazione, si rinvia allo stimolante lavoro di Horn (1995).   

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